Ave Maria!

(Matteo 11,25-30)
 
Tante volte, ascoltando soprattutto il Vangelo di Matteo, abbiamo l’impressione che Gesù sia rimasto spesso molto solo, a parte la presenza dei discepoli, quando annunciava il suo messaggio. Rimaniamo un po’ impigliati nelle dispute accese tra Lui e i dottori della Legge, i sacerdoti, i sadducei. Insomma i rappresentanti della fede di Israele. Ci dimentichiamo del resto: il popolo semplice, la gente, le persone che non avevano nessun ruolo nella religione ufficiale.
E invece, nel Vangelo di oggi, accade qualcosa che ci deve far pensare parecchio circa il nostro modo di ascoltare Gesù. Un giorno, intanto, è Gesù a sorprendere tutti perché rende grazie a Dio per il suo successo con la gente semplice di Galilea e per il suo fallimento tra i maestri della Legge, scribi e sacerdoti: “Ti rendo lode, Padre…perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti le hai rivelate ai piccoli”. Gesù, dunque, era piuttosto contento di questa constatazione realistica: “ Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”. E’ questo il modo con cui Dio rivela le sue “cose”: i piccoli, la gente semplice e ignorante, quelli che non hanno accesso alle grandi conoscenze della cultura e perfino della cultura della fede. Quelli, in altri termini, che non contano nulla nella religione del tempio, sono proprio questi che sono disposti a lasciarsi istruire da Gesù, mentre i sapienti e i dotti non capiscono nulla di quanto Egli vuole loro comunicare.
 
Ora, a parte il fatto che affrontare il rapporto tra Gesù e i dottori della Legge, è davvero uno dei temi più delicati, forti e precari della teologia e della storia dello spirito e dell’umanità, non dobbiamo, in ogni caso, fermarci a questo. Sarebbe troppo facile e soprattutto qualcosa di pericoloso, perché tanta predicazione del passato, insistendo su questo punto, ha sviluppato una mentalità anti-ebraica che è sfociata, purtroppo, in una forma di larvato, se non tremendo, antisemitismo. In realtà, - ma non è questo il momento -, si tratta di capire bene, e in profondità, lo scontro viscerale, lacerante e lancinante tra Gesù e questo tipo di religiosità ebraica che nel Nuovo Testamento traspare in modo assai più filtrato, quasi da caricatura. E’ vero, infatti, che i farisei   o i dottori della Legge del Nuovo Testamento, per la verità, sembrano fantocci e spauracchi, che non hanno vera vita. C’è qualcosa che non va, da ambedue le parti. Il problema consiste nel fatto che lo stesso Dio appare in due forme del tutto diverse. A ben vedere, quindi, lo scontro tra Gesù e i farisei, - come anche la teologia di san Paolo -, richiede non soltanto una fede, ma anche un’intelligenza molto forte, robusta, radicata in una tradizione del pensiero dell’elezione e dell’alleanza. Tutto questo per noi è quasi irraggiungibile, se non troppo remoto e lontano. Soltanto Edith Stein (1891-1942), ebrea e filosofa, convertita alla fede cristiana, Carmelitana Scalza, martire nelle camere a gas di Auschwitz, - oggi santa Teresa Benedetta della Croce -, potrebbe darci molti lumi circa questo rapporto tra ebraismo e fede cristiana. Ma sarebbe un discorso molto lungo perché investe la “teologia della croce”. In ogni caso, mai dobbiamo dimenticare che gli ebrei sono i “nostri fratelli maggiori” nella fede, come ha ben sottolineato san Giovanni Paolo II, e che, tra l’altro, ha beatificato e canonizzato Edih Stein. Torniamo, invece, al brano evangelico di oggi, anche se questa parentesi è sembrata a me necessaria, e proprio per entrare in profondità nella Parola di Gesù. E spero di riuscirvi in qualche modo, quanto spero che il Signore mi aiuti!
 
Gesù, dunque, non ebbe mai problemi con la gente semplice del popolo. Sapeva bene che lo capivano. Ciò, invece, che lo preoccupava era se un giorno i capi religiosi, gli esperti della legge, i grandi maestri di Israele, sarebbero arrivati a cogliere il suo messaggio. Sotto certi aspetti, si direbbe, invece, che ciò che riempiva il popolo di gioia, lasciava indifferenti e, talvolta, ostili i dotti e i sapienti della Legge. Almeno in quel momento.
Di fatto, quei poveri contadini che vivevano difendendosi dalla fame e dai soprusi dei latifondisti, comprendevano molto bene Gesù: Dio li voleva vedere felici, senza fame né oppressori. I malati trovavano in Lui la forza della loro fede e tornavano a credere nel Dio della vita. Anche le donne, che non osavano uscire di casa, intuivano che Dio non le riteneva affatto di rango inferiore, rispetto agli uomini, e soprattutto capivano che Dio doveva amare proprio come diceva Gesù: non solo con tenerezza di una madre, ma altresì con dedizione assoluta. Davvero, quindi, la gente del popolo trovava nell’annuncio di Gesù il Dio cui anelava, profondamente, il loro desiderio e la loro sofferenza.
Ed è proprio così. Lo sguardo dei piccoli e dei poveri, ordinariamente, è più puro perché hanno sofferto molto, ed è proprio questa sofferenza, mai sopita o dimenticata, a renderli così onesti nel cuore e aperti ad ogni parola che viene dal cuore. Si potrebbe dire che vanno all’essenziale. Vanno a colpo sicuro nell’intuire una verità dell’anima poiché, - occorre ripeterlo -, sanno che cosa vuol dire soffrire, vivere senza sicurezze, abbandonati alla solitudine e all’emarginazione più devastanti. E così sono i primi a comprendere il Vangelo.  Questi piccoli, questi poveri nel cuore e nella vita, non dovrebbero mai essere persi di vista da vescovi, teologi, moralisti, sacerdoti ed ha ragione Papa Francesco nel ricordarli continuamente: non si tratta solo dei poveri che hanno fame, certo anche di quelli e per i quali occorre sempre fare il più possibile per alleviarne la sofferenza (come ha fatto la Caritas in questi mesi di coronavirus!), ma della povertà in sé stessa che è la condizione essenziale per ascoltare fruttuosamente la Parola di Gesù e in genere di tutta la rivelazione biblica ( pensiamo al messaggio dei Profeti). A questi poveri nel cuore e nella vita Dio rivela qualcosa che sfugge a tutti gli altri.
 
Un teologo spagnolo, autore di un bellissimo libro su Gesù (Cfr. José Antonio Pagola, Gesù. Un approccio storico, Borla), un teologo che amo molto, racconta un toccante episodio dei suoi anni di studio nella celebre “Scuola Biblica di Gerusalemme” ( titolo originale: École Biblique de Jerusalem). E’ una prestigiosa scuola di studi biblici, fondata agli inizi del Novecento da  padre. R. Garrigou-Lagrange, domenicano e oggi Servo di Dio, necessaria poiché si tratta di studiare la Sacra Scrittura con l’aiuto delle lingue originali e della cultura del tempo, quindi di grande aiuto per la comprensione il più possibile buona dei testi sacri. Si chiama “esegesi”.
Dunque, José Antonio Pagola, studente a Gerusalemme (beato lui!), ascoltava un giorno la lezione di un padre domenicano, molto esperto nella difficile arte di sviscerare il Vangelo di Matteo. Trattandosi di uno “studio”, racconta, tutto sembrava insufficiente a comprendere il senso ultimo del testo: critica testuale, analisi letteraria, struttura del passo. E quando, nello studio, si arrivò un giorno a questi versetti di Gesù in cui  esclama:” Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”, allora il professore fece un lungo silenzio. Poi disse agli studenti, ma molto lentamente: “ Non dimenticate mai queste parole. Tutto il resto lo potete dimenticare”. Commenta così Pagola: “ Fu probabilmente la migliore lezione di esegesi che avessi mai ricevuto. In seguito, nel corso degli anni, ho potuto constatare che è così”.
 
In effetti, quando abbiamo l’impressione di trovarci di fronte o accanto ad una persona vicina a Dio, si tratta, sicuramente, di una persona dal cuore semplice. Potrebbe darsi che si tratta di una persona che non abbia grandi conoscenze sulle scienze bibliche, oppure, all’opposto, di una persona dalla notevole cultura, ma il risultato è lo stesso: è una persona vicina a Dio, ed è questo quello che conta. Perché tutti sappiamo, in un modo o nell’altro, che non basta parlare di Dio per far sorgere la fede che è movimento d’amore e che soltanto i cuori semplici possiedono e coltivano. Al contrario, anch’io mi sono trovato spesso, molto spesso, a parlare di Dio a persone assai diverse e, in questi colloqui-conversazioni, ho incontrato persone che ponevano domande su domande sopra ogni questione della fede cristiana, ma, ahimè, senza mostrare affatto il desiderio profondo d’incontrarsi con Dio. Altre volte, invece, ho conosciuto gente semplice, sofferente, anche talvolta lacerata da situazioni dolorose, ma i cui occhi brillavano di una luce segreta e bella, quando gli ricordavo, al di là di tutto, il testo del profeta Isaia: “Io sono il Signore, tuo Dio…Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo…Non temere perché io sono con te!” (Isaia 43).
 
Che cosa succede, allora, miei cari amici, fratelli e sorelle? Succede semplicemente che, il più delle volte, la cultura fine a sé stessa, - cioè fatta per raccogliere consensi o successo -,  sveglia in noi un serpentello silenzioso, ma estremamente velenoso: la superbia, quel veleno che si trasforma assai presto in vizio o almeno così chiamato dalla Sacra Scrittura. Ora è vero che la psicologia ci ha mostrato che abbiamo bisogno per vivere della così detta “autostima”, ma questo impulso naturale, se non è guidato, io credo, da Dio, presto soffoca in noi le disposizioni migliori verso la vita, gli altri, Dio stesso. Soffoca, soprattutto, la nostra libertà interiore, la ricerca del buono, del vero e del bello, per assestarsi nella violenza ad oltranza di quel tiranno che si chiama “io”, solo io e nient’altro che io. Il cuore superbo non ha altra risorsa che chiudersi in sé stesso, forse per difendersi o per garantirsi il più possibile dalle minacce esterne, - ivi compreso anche Dio -, ma è un cuore arido, senza finestre, senza orizzonti e senza luce. La superbia, in fondo, è una delle gravi malattie interiori della nostra contemporaneità, perché distrugge le relazioni, i rapporti, la generosità e, particolarmente, l’apertura verso il futuro. Un lungo discorso che interessa, oltre tutto, le nostre psicologie individuali, i nostri traumi infantili, i giudizi e i valori del “mondo” in cui viviamo, i messaggi che ci piovono da ogni parte e il cui succo è questo: se sei infelice, è colpa tua! Devi farti valere, devi attaccare, devi ottenere, sfrutta ogni cosa, perfino gli altri. Non c’è altro, per vivere!
 
Ascoltare Dio, ascoltare Gesù ci libera, - lo credo fermamente -, da questo veleno distruttivo che insidia la nostra anima più di altri mille pericoli, perché la superbia è una malattia dell’anima proprio devastante e il più delle volte ignorata o minimizzata. Ascoltare Gesù, invece, significa conoscerlo, conoscere Dio, e salvarci da tutte le nostre frustrazioni che innescano il veleno della superbia. Con Gesù nasce nel cuore la confidenza, la fiducia nel suo amore, la speranza che Egli saprà trasformare le nostre sofferenze in una “grazia” insperata ma certa: “ Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, ed io vi ristorerò”. E penso alla piccola, grande santa Teresa di Lisieux, una ricercatrice instancabile di Gesù e della sua compagnia, pur essendo molto provata dalla vita (anche in Monastero) e per di più soggetta a crisi continue a causa dei molti lutti che avevano funestato la sua infanzia e adolescenza, - ben altro che una “santa borghese”! -, ma che con Gesù farà una scoperta straordinaria che anni di sedute psicanalitiche gli avrebbero di sicuro invidiato: cambiare il centro della sua attenzione ovvero, come dice lei stessa, “concentravo tutta la mia attenzione nell’ascoltarlo bene”. Ascoltare Gesù quando le parlava di Dio.
 
Di fatto, Dio non è nelle speculazioni dei dotti e dei sapienti che vorrebbero dimostrarne o negarne la sua esistenza. Ed è Gesù, solo Gesù e non un altro che ce lo rivela: Dio non è sulle cime o sulle vette del pensiero umano, ma è nascosto nella desolazione più segreta, più umiliante del cuore umano! Per questo, in Gesù, Dio è veramente “umile e mite di cuore”, e può rivelarsi a quelli che accettano di ritrovarsi in basso come lui, umile e mite, e che non hanno altra speranza che Lui! E’ questa, credo, la grande scoperta fatta da Edith Stein, santa Teresa Benedetta della Croce,  filosofa, ma che ad un certo punto, con la sua conversione dopo la lettura di santa Teresa d’Avila, si lancerà a piene vele nella “scienza della croce”. E’ qui che troveremo Dio anche noi a colpo sicuro, tutti noi che fatichiamo sotto un fardello, qualunque esso sia, ed è qui che Dio ci procurerà il risposo della sua compagnia e della sua custodia. In sostanza, una sola cosa ci manca per essere in grado di conoscere veramente Dio: accettare di scendere così in basso, là dove Gesù si trova e ci attende, per raggiungere davvero la sua statura, cioè la statura della sua umiltà, confidenza, fiducia nell’amore del Padre. A quel livello soltanto i nostri occhi si apriranno e il nostro cuore comprenderà: “ se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno di Dio”. I bambini non devono dimostrare niente, nessuna carriera, nessuna dote o talento, hanno l’amore che li lega al loro Padre o alla loro Madre, nella povertà di tutto e nella confidenza in quell’amore che, sanno, non gli mancherà mai. Amen.


Don Carmelo Mezzasalma
San Leolino, 5 luglio 2020
 
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